Il Conte e il clone. Ovvero la storia del Prosecco
Sembra proprio che l’attuale successo produttivo e quindi commerciale del Prosecco (la Glera, il Valdobbiadene, che dir si voglia) debba qualcosa a un componente di una ricca famiglia di imprenditori della seta che ebbe storia in Pieve di Soligo: i Balbi Valier. E in particolar modo al conte Marco Giulio Balbi Valier che negli anni sucessivi al 1850 aveva isolato e selezionato un clone di Prosecco migliore degli altri, individuato ancora oggi come “Prosecco Balbi’.”
Il Conte, su un libretto dell’epoca scrive tra l’altro: “…viti Prosecche, più sicure ed ubertose di ogni altra qualità, e che danno un vino bianco sceltissimo, pieno di grazia e di forza”.
Apprendiamo inoltre che la nascita del Prosecco “del Conte” portò all’abbandono di varietali di scarso pregio come il Prosecco “Piave” che, secondo la Rivista di Viticoltura e di Enologia italiana di Conegliano “promette molta uva dapprincipio, ma cade al momento della fioritura; quindi di difficile allegagione”.
L’etichetta Balbi Pieve
Ma veniamo all’etichetta di queste nuove bollicine prodotte con 100% di uve Glera varietà Balbi (che garantiscono risultati organolettici migliori grazie anche ad un grappolo “spargolo” che favorisce la “presa di luce” da parte degli acini). Si tratta di bottiglie a tiratura limitata, visto che il vigneto dal quale origina l’uva si estende solo per 1 ettaro.
Il nome è un abbinamento tra il cognome del celebre Balbi e il nome del luogo di elezione, Pieve di Soligo e delle colline circostanti (in particolare, per questo vino, i pendii della “Miceina”). Etichetta semplice, che afferma giustamente la paternità del benemerito Conte “ampelografo” e la provenienza della materia prima. In aggiunta al nome, chiaro e molto leggibile, vediamo la raffigurazione del palazzo Balbi Valier che ancora oggi fa bella mostra di sé al centro del paese. La sua particolarità è dovuta alla serie di ben 11 monofore, con decorazioni, e al fatto che conta 4 piani, per l’epoca una costruzione complessa e ardita. La sponda concettuale c’è, vista l’importanza, per tutta la denominazione, della scoperta clonale del Conte Balbi Valier. Scoperta che a rigor di logica andrebbe sottolineata ancora di più da parte del Consorzio e degli enti preposti alla promozione del Prosecco Superiore Docg.
“Bere il vino nuovo di uve bianche non è mai stato un problema in passato, mentre negli ultimi dieci-quindici anni, con la chimica che viene spruzzata sui grappoli, è meglio evitare di bere il vino ancora torbido, perché le tracce di quella roba ancora in sospensione possono causare spiacevoli effetti collaterali. Sarebbe meglio quello di uva fragola o di clinto… ma io le viti le ho tolte tutte qualche anno fa, per evitare rogne…”. Così un vecchio viticoltore di Solighetto, in risposta alla richiesta di procurarmi un paio di bottiglioni da usare con le castagne di Combai. È un dato di fatto, il vino nuovo costituisce una lacuna, per le nostre zone, anche nei confronti di quel turismo eno-gastronomico, sempre alla ricerca di esperienze autentiche. Problema che si spera in prospettiva possa essere superato grazie agli sforzi di riduzione e modifica dei trattamenti e all’’orientamento crescente verso sistemi produttivi e vini più naturali. E a proposito di questi ultimi, sul Clinto fatto in casa “vino genuino per definizione”, come diceva Mario Soldati “perché così a buon mercato che non vale la pena sofisticarlo” … persistono tuttora alcuni luoghi comuni che è opportuno rimuovere, quanto meno per dovere di informazione.
Clinto: i difetti?
-Il Clinto è sospettato di contenere un eccesso di alcol metilico (metanolo), che come noto, agisce negativamente sul sistema nervoso. Questo alcol è presente naturalmente nei distillati e in alcune preparazioni a base di frutta, e in presenza di quantità ridotte il nostro corpo riesce facilmente a metabolizzarlo. Tutte le recenti analisi chimiche compiute in laboratorio, nei vini rossi da ibridi produttori diretti (I.P.D.) come il Clinto, hanno rilevato una presenza di metanolo inferiore ai limiti consentiti e in alcuni casi anche al di sotto di quella dei vini rossi più conosciuti.
-Si imputa al Clinto di essere troppo ricco di tannini dell’uva, e potenzialmente in grado di provocare intolleranze. In realtà recenti e sofisticate analisi metabolomiche (sul funzionamento del metabolismo cellulare) effettuate su buccia, semi e polpa di uve mature di diverse specie di viti americane, hanno dato come riscontro la quasi totale assenza di questo tipo di tannini.
-Si contesta del Clinto l’aroma muschiato, di selvatico (volpino, foxy per gli anglosassoni). Si sta quindi parlando di gradimento o meno di questo carattere. Ma come la mettiamo con il richiamo al “piscio di gatto” dei Traminer o coi “sentori di idrocarburi” e di “sella di cavallo”, di alcuni prestigiosi rossi da invecchiamento, considerati di pregio?
-Si accusa infine il Clinto di un eccesso di acidità fissa. E come la mettiamo con il Raboso per esempio? O con le vendemmie tardive d’Alsazia e del Reno. O con quello champagne Philipponat, degustato in cantina durante una visita di qualche anno fa (forse troppo giovane) che mi ha provocato bruciori di stomaco per due giorni? L’acidità, può essere un vantaggio, quando manca il grado alcolico, e nascondere anche insospettabili pregi, che emergono però con gli anni.
Le caratteristiche di una buona sopressa d’alta marca
Sopressa e Prosecco superiore sono da tempo un’accoppiata vincente, tra le colline di Conegliano, Valdobbiadene e del Montello. Alcuni piccoli produttori di vino, in particolare nei dintorni di Valdobbiadene, sono anche allevatori e produttori di ottimi insaccati, forniti ai clienti che frequentano l’Alta Marca in cerca dei rinomati bianchi che spumano. In occasione di un convegno svolto al Fondaco del Gusto di Pieve di Soligo, sono state definite e codificate le caratteristiche della sopressa tipica dell’Alta Marca. Ci riferiamo alla versione più “tradizionale” del nobile insaccato, realizzata in quantità limitate, più compatibile con il mercato locale che con la grande distribuzione; ma proprio per questo più attrattiva nei confronti dei cultori del genere.
Ambito culturale e territoriale:
L’ambito territoriale considerato è quello pedemontano, socio-culturalmente omogeneo, che comprende l’Alta Marca e si estende fino alle pendici del Grappa, includendo il Montello e idealmente anche il bassanese. Un’area nella quale la sopressa rappresenta una tradizione consolidata ormai, da alcuni secoli.
I Maiali
I suini pesanti, in genere incroci tra Duroc, Large White e/o Landrace, provengono da allevamenti locali con ciclo unico di 12 mesi (10-14), con un peso >200 Kg e sufficiente lardo dorsale. L’alimentazione è a base di cereali (orzo e mais) crusca, farina di soia, siero latte ( nei primi mesi), ortaggi, patate, castagne (solo alla fine), con accrescimenti giornalieri moderati (< 8 hg/giorno).
Le Carni
Per la produzione della sopressa tipica dell’Alta Marca si utilizzano tutte le parti dell’animale comprese quelle più pregiate come: prosciutti, coppa, spalla, pancetta, grasso di gola, lombo. Fondamentale la corretta quantità di lardo dorsale, quello ideale per l’impasto e più adatto alla stagionatura.
L’mpasto
I tagli di carne selezionati sono sottoposti a macinatura in tritacarne utilizzando fori di diametro compreso tra 6 e 8 mm. Alla carne macinata, e ad una temperatura compresa tra 3 °C e 6 °C, vengono aggiunti gli ingredienti preventivamente miscelati, soprattutto sale e pepe macinato grosso; più eventuali altre spezie escluso l’aglio. Spesso utilizzato anche vino, in genere prosecco. Diffuso, per questioni di igiene e profilassi, l’utilizzo di percentuali minime (<50 miligrammi/Kg) di nitrato di potassio (salnitro). L’impasto viene insaccato utilizzando budelli naturali bovini con diametro minimo di 8 cm.
L’asciugatura:
Dopo lo sgocciolamento per 12-24 ore, ad una temperatura di circa 20-22°C; fondamentale una buona asciugatura, gestita naturalmente, per almeno 10 giorni (e fino a 3 settimane) con temperature decrescenti da 22°C ai 10-12 °C, facendo attenzione a mantenere sempre il giusto grado di umidità.
La stagionatura
La T° in “caneva” dovrebbe essere costante, idealmente compresa tra i 12° e i 18°; garantendo un minimo di circolazione d’aria e la giusta umidità (circa 65-70 %). Solo così può svilupparsi quella “muffa nobile”, dal bianco al grigio chiaro, che favorisce la stagionatura e conferisce alla soppressa il caratteristico inconfondibile profumo. La stagionatura dura tradizionalmente fino alle vendemmie ma se il locale è adatto e la pezzatura congrua (> 4 Kg), una soppressa può stagionare in cantina anche per 18-24 mesi; purchè venga accudita e le muffe in eccesso vengano periodicamente spazzolate.
Caratteristiche finali
Al tatto la sopressa intera stagionata si presenta compatta ma non troppo asciutta. Esternamente visibili tracce grigio tendenzialmente chiaro della muffa, sul grigio/marrone del budello stagionato. Al taglio la sopressa si caratterizza per una naturale morbidezza, con fette compatte e prive di untuosità. Alla vista si nota il contrasto tra il rosa carico della parti magre ed il bianco di quelle grasse, con distribuzione irregolare ma omogenea. Al naso (orto nasale) emerge un profumo gradevole di carne stagionata e spezie. Un sentore di muffa nobile, percepibile anche mentre si mangia (retro nasale), costituisce un elemento di pregio ed è indice di una buona stagionatura.
Il prezzo : Il prezzo di una vera Soppressa d’Alta Marca fatta bene, con tutte le parti nobili di un maiale di un anno, stagionata 5-6 mesi (secondo la pezzatura), non può essere inferiore a quello delle soppresse industriali, fatte con spalle di maiali di 6 mesi e quindi senza le parti nobili, “stagionate” soltanto 1-2 mesi con l’ausilio di essicatori e uso sistematico di conservanti, antiossidanti, farine e altro.
Vino col fondo, sui lieviti, come dire quel vino rifermentato in bottiglia che da una vita, da queste parti, tra le colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, si imbottiglia anche nelle case. Variabile a secondo dei produttori, delle rive, dell’uvaggio, delle annate, delle lune di imbottigliamento,,,, ma sempre onesto, sincero, autentico, gradevole. Una specie di “champagne” tradizionale, senza degourgement.
Giusto riconoscimento quello del Consorzio di tutela, di concedere la docg anche alla versione di Prosecco sui lieviti. Tardivo ma giusto.
Come da tradizione, anche quest’anno nel periodo Marzo/Aprile, in alcune piccole cantine tra le colline di Valdobbiadene, Pieve di Soligo e Conegliano, comprese quelle del network 77vintidó, si svolge come da tradizione la vendita del vino sfuso in damigiana da imbottigliare. Non si può più definire prosecco, anche se la zona è quella e l’uva glera anche, perchè le normative ed i regolamenti dei Consorzi di tutela del marchio riservano la denominazione soltanto ai vini in bottiglia.
È un rito che avviene da oltre 70 anni e che coinvolge soprattutto gli appassionati. Quelli che privilegiano le tradizioni e amano imbottigliare da sé il vino scelto, acquistato nella cantina di fiducia (in genere dopo appuntamento).
L’imbottigliamento viene fatto nel periodo Marzo/Aprile, tradizionalmente dopo la luna piena di Pasqua (e quindi in luna calante) controllando che il vino sia pronto e manifesti i primi segnali di ri-fermentazione.
Il risultato è il classico vino “col fondo”, che contiene in bottiglia un piccolo sedimento costituito dai lieviti.
Il prosecco “col fondo” imbottigliato in casa
Il “col fondo”, in particolare quello imbottigliato in casa, è la categoria più particolare di Prosecco Superiore. Ogni bottiglia, rifermentata singolarmente in modo naturale, tende a presentare caratteristiche uniche. Gli aspetti che caratterizzano i prosecchi di questa tipologia sono i tipici profumi di lievito e crosta di pane che assieme alla nota fruttata creano un bouquet inconfondibile. Al palato questa si differenzia dalle altre versioni di Prosecco per corpo, struttura e mineralità; con sfumature diverse a seconda delle zone e del mix di uve utilizzato insieme alla glera (perera, verdiso, bianchetta ecc).
Non esiste una descrizione standard delle caratteristiche di questa versione tradizionale del prosecco, visto che ogni annata si differenzia dalle altre. In più l’età della bottiglia incide molto sugli equilibri del vino che si modificano in modo molto dinamico nel tempo. Questa tipologia infatti, è quella che meglio asseconda l’invecchiamento del prosecco (per qualche anno, non certo per 20-30 come con il barolo).
Anche nel servizio questo vino presenta particolarità: ad esempio la temperatura di circa 8° – 9° C deve essere raggiunta senza shock (vedi abbattitori), per evitare spiacevoli riduzioni che talvolta si verificano. In più il prosecco col fondo dovrebbe essere scaraffato e servito quindi limpido (anche se alcuni lo propongono torbido, alla moda birraia…) in bicchieri da degustazione o comunque adatti a favorire l’ossigenazione.
Il bello di imbottigliare in casa
In estrema sintesi, una prima cosa bella dell’imbottigliamento fatto in caso è data dalla gita tra le colline di un paesaggio straordinario, alla ricerca della propria cantina, quella giusta, per acquistare il vino dopo i rituali assaggi dalle vasche, accompagnati talvolta da pane e sopressa.
Un’altra è che ognuno sarà in grado, attraverso le proprie personali scelte, dei vini, dei tempi e di alcune differenze di processo, di ottenere il proprio “prosecchino” o “cartizzino”, personale, unico, da stappare con famigliari e amici, con la convinzione profonda che sia il migliore del mondo 🙂
Pieve di Soligo, sede del prestigioso Consorzio del Prosecco Superiore, ha il merito di avere contribuito all’affermazione del miglior Prosecco. E 77vintido ha quello di essere riusciti a salvare l’ultimo ettaro di vigna coltivato utilizzando la storica varietà Balbi.
Con la nuova produzione vendemmia 2019, il nostro Balbi Pieve utilizzerà la bottiglia del Consorzio del Prosecco Superiore DOCG di Conegliano Valdobbiadene e una nuova etichetta, nel solco della tradizione.
Con l’occasione, ci è parso opportuno richiamarne qua la storia e le origini.
Le uve del Prosecco
“Se è vero che il Marzemino (passito) non può che essere associato a Refrontolo, il Verdiso a Combai, il Cartizze a Valdobbiadene, il Torchiato a Fregona, qual è il vino tipico associato a Pieve di Soligo?
Parlando di vini meglio sempre partire dall’uva e dalle sue varietà. Sappiamo che il Prosecco si produce utilizzando uve della varietà Glera, che una volta venivano chiamate allo stesso modo del vino e cioè Prosecco.
Tra queste uve spiccava in passato, il “Tondo Balbi”, detto anche prosecco varietà Balbi, dal grappolo spargolo quindi meno produttivo, ma adatto a favorire la presa di luce tra gli acini e quindi maturazione ed aromi. Questo biotipo fu selezionato dal conte Marco Giulio Balbi Valier e ancora oggi ne sopravvivono, per fortuna, alcune coltivazioni residuali. Ma facciamo un passetto indietro nella storia dell’ampelografia veneta.
Furono l’imperatore dell’Austria-Ungheria, succeduto al governo del Lombardo Veneto dopo la caduta di Napoleone e il congresso di Vienna del 1815, a chiedere di formulare un catalogo dei vitigni coltivati nei territori dominati.
Per le colline di Conegliano Valdobbiadene le uve citate nel rapporto erano la Perella, la Pignoletta bianca, la Verdisa lunga e dell’Occhio, la Marzemina nera e la Prosecco. Di quest’ultima venivano individuati due principali tipi:
Prosecco minuto o slungo: pianta poco vigorosa con tralci dai nodi fitti, grappoli poco alati e lunghi, acini con scorza grossa, piuttosto dolci e di dimensioni ineguali;
Proseccon o Prosecco tondo: pianta vigorosa con tralci dai nodi fitti e dai grappoli alati e lunghi, acini grossi con scorza dura, ma dolci.
I meriti del Conte
Nel 1861, alcuni anni dopo la nascita dello stato Italiano, fu svolta un’indagine sulle condizioni dell’agricoltura. All’epoca si producevano nel comprensorio di Conegliano Valdobbiadene 25000 ettolitri di Verdiso, 6600 di Bianchetta, 3800 di Boschera e 3200 di Prosecco, che quindi risultava essere ancora un vitigno secondario.
Si può dire in fondo che significativi meriti di aver dato inizio alla moderna storia del Prosecco vadano ascritti al Conte Balbi Valier. Negli anni successivi al 1850 egli aveva isolato e selezionato un clone di Prosecco migliore di quelli esistenti e con sapore tendente all’aromatico e profumi caratteristici di frutta, al quale aveva dato il suo nome.
Il Conte diede alle stampe nel 1868 un libretto composto “Per le auspicatissime nozze Bianchini-Dubois” in cui descrisse le proprie coltivazioni che si trovavano a Pieve di Soligo (a metà tra Conegliano e Valdobbiadene, sui pendii della “miceina”) in località Solighetto. Egli scrive:
“un quarto delle suddette Pertiche cen.380, non potendosi con esattezza precisare la quantità è tutta a vigneto, che piantai a viti Prosecche, più sicure ed ubertose di ogni altra qualità, e che danno un vino bianco sceltissimo, pieno di grazia e di forza“.
Nacque così in quegli anni la moderna avventura di un vino che in un secolo ha saputo conquistare il mondo. E a Pieve di Soligo (Solighetto e Collalto) va sicuramente il merito di avere contribuito, grazie al Balbi, alla affermazione del miglior Prosecco.”
Perera, Bianchetta, Verdiso, Boschera, Marzemina bianca, Garganega, Malvasia: un secolo fa nella produzione del Prosecco, tra le colline di Valdobbiadene Conegliano, era molto diffusa la pratica di utilizzare un mix di uve tra quelle coltivate storicamente in zona, che comprendeva specie oggi rare come appunto la Perera, la Bianchetta ecc…
Con riguarda alla situazione attuale, il regolamento del Consorzio stabilisce che per la produzione di vino fermo, vino frizzante e vino spumante il Prosecco può essere ottenuto da Glera in purezza o da un minimo dell’85% di Glera con l’aggiunta del 15% di altre varietà minori come Verdiso, Bianchetta trevigiana, Perera, Glera lunga, Chardonnay, Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero (vinificato in bianco).
Alcuni cenni su storia e caratteristiche delle varietà minori più tradizionali e meno conosciute:
Perera
Perera detta anche Pevarise, coltivata già nel XIX secolo; l’uva era utilizzata in piccole percentuali nella vinificazione del Prosecco, soprattutto nella zona di Valdobbiadene, Col San Martino, Solighetto e nel Felettano, per aumentate il profumo e l’aroma del vino. Il nome è attribuito al gusto e profumo particolare (polpa di pera) o forse, alla forma dell’acino simile ad una pera rovesciata. La vite di Perera fu decimata negli anni dall’attacco della flavescenza dorata, una malattia che danneggia la linfa della pianta, provocandone l’arresto dello sviluppo e la morte. La coltivazione anche per questo ha finito per diventare negli anni marginale, e solo ultimamente si assiste a qualche segnale di rinascita.
Verdiso
Il nome verdiso deriva dal colore tendente al verde degli acini. E’ coltivato nella zona di Conegliano Valdobbiadene dal 1700; nel XIX secolo era molto diffuso, superando per produzione ogni altro vitigno della zona. Il grappolo è medio, piramidale, a volta con un’ala; gli acini elissoidali medio-grandi; la buccia sottile e pruinosa di colore giallo-verdastro. Era un tipo d’uva che marciva facilmente e quindi, con la scomparsa dei prodotti a base di rame, che rendevano più resistente le bucce, fu gradualmente sostituito dal glera.
Il verdiso è un vitigno autoctono dell’Alta Marca trevigiana, dove è stato sempre apprezzato per la capacità di apportare acidità, sapidità e freschezza ai bianchi di collina. Sopravvive ancor’ oggi una piccola produzione residuale di verdiso, vinificato in purezza, ed ogni anno, a Combai (TV), i pochi produttori presentano i loro vini nella mostra del verdiso.
Bianchetta
Fin dal ‘700 si ha notizia di un’uva chiamata “Bianchetta”, utilizzata nel trevigiano per “ingentilire” ed aumentare il grado dell’antenato del prosecco, soprattutto nelle annate fredde. Il nome veniva usato per indicare il colore delle bacche e in molti casi andava ad indicare anche uve diverse tra loro.
Dal momento che maturava prima, la vite era coltivata spesso nelle colline più alte, dove le condizioni ambientali si rivelavano più difficili. Il grappolo si presenta medio, tendenzialmente piramidale, corto e compatto. Gli acini medi sferoidali con una buccia pruinosa di colore verde-giallastro. Questa uva ormai rara, viene qualche volta usata in abbinamento a quelle di verdiso e glera per produrre il prosecco più tradizionale, fermentato in bottiglia, con fondo.
Boschera
Il boschera è un vitigno originario della zona di Vittorio Veneto (TV). Viene coltivato in vigneti alti a ridosso dei boschi; produce poca uva a bacca bianca, adatta all’appassimento perché gli acini hanno una buccia dura e puntinata e una marcata acidità. Con le varietà Glera e Verdiso le uve Boschera vengono tradizionalmente fatte appassire su graticci. La vinificazione è fatta a Pasqua, ed il particolare vino che se ne ricava è il rinomato Torchiato di Fregona, prodotto da oltre un secolo ai piedi del Cansiglio.
Il vino comune che si ricava da queste uve in purezza, è un vino di colore giallo paglierino, leggermente aspro, fruttato con sentori di mela acerba.
Marzemina bianca
La marzemina Bianca è un vitigno di antica coltivazione, dalle origini incerte: secondo alcuni proveniente dalla Borgogna, si è successivamente diffuso in Germania, Austria, Svizzera ed Italia. Qualcuno lo indica come sinonimo dello “Chasselas dorato”. In Italia era coltivato soprattutto nella Marca trevigiana, sui Colli Euganei e in altre zone vinicole del Veneto.
Il grappolo è medio, piramidale con acini grossi e buccia piuttosto spessa. La marzemina bianca è stata in passato soprannominata Sciampagna per le caratteristiche del vino che ne deriva, aromatico e frizzante.
77vintidó propone una selezione di vini : “I Magnifici 7”, sette incredibili vini 77vintidó.
Prosecco DOCG Millesimato Vintidó Brut o Extra Dry, Prosecco Superiore Brut Setantasete, Superiore di Cartizze Brut, Prosecco Balbi DOCG Brut ed Extra Dry, PerEra col fondo e Colmiotin rosso di collina non filtrato, da vecchie vigne.
Si tratta di vini unici, prodotti in quantità limitate (600/3000 bott.). Approfitta di questa selezione particolare, disponibile sino ad esaurimento scorte!
Clinto: nel territorio del Prosecco, esisteva un altro “vino”, di fatto proibito in Italia già dal 1931 ma sopravvissuto ai divieti, agli stravolgimenti di due guerre e giunto ai giorni nostri in quantità residuali, prodotte in casa per autoconsumo. Da amanti della biodiversità, della cultura rurale e delle tradizioni storiche del territorio dell’Alta Marca, ci è sembrato utile pubblicare questa indagine. È anche un modo per richiamare il nostro passato e le nostre origini, senza farsi condizionare, senza rinnegarle.
Il Clinton è un tipo di vite spontanea, quello che si definisce un “ibrido naturale”, che fu “piantata” per la prima volta nel 1821 da Hugh White a College Hill (NY). Si tratta di una vite selvatica che risulta sorprendentemente refrattaria alla fillossera, gravissima malattia della vite. L’arrivo in Europa delle prime barbatelle di Clinton dalle nostre parti, è collocabile tra il 1850 e il 1860, in seguito alla disastrosa epidemia di fillossera che sconvolse il Nord Italia e altri paesi d’Europa ed in particolare la Francia.
Molti anni dopo l’arrivo delle prime barbatelle, a cavallo degli anni 50, la diffusione degli ibridi produttori diretti resistenti alla fillossera risultava particolarmente elevata nel Nord dell’Italia, in talune regioni della Francia (Midì in particolare), in Germania, Austria ed in qualche altro paese dell’Oriente europeo.
Oltre alla filossera un’altra piaga che decimava i raccolti soprattutto in pianura, erano le gelate; e c’è da dire anche che sempre in pianura, a causa della superiore umidità, la vite “nostrana” richiedeva comunque più cure e più trattamenti. La vite “americana” e le varianti di clinton e fragola invece, resistono bene anche alle basse temperature e al gelo e sono anche facilmente adattabili al suolo e al clima. Per proteggere l’uva clinton bastavano 3-4 pompate di solfato di verderame + calce (eventualmente un po’ di polvere di zolfo sul grappolo ancora verde, umido di rugiada) e l’uva andava a maturazione senza grossi problemi.
Nelle zone del Veneto orientale, prese in considerazione per la mia indagine sul campo, sembra certo che l’utilizzo dei primi ibridi di Clinto (così viene chiamata la variante veneta) frutto di incroci importati dalla Francia, risalga alla fine dell’800.
I contadini sostenevano che la crociata denigratoria contro il Clinto non fosse conseguenza soltanto della regolamentazione europea che non contempla il vitigno tra le “vitis vinifere”(Regolamento CE 479/2008) ma fosse anche pilotata dall’industria chimica che vede in esso un rischio per il mercato degli additivi chimici; quest’ultimi ai giorni nostri nell’occhio del ciclone sull’onda dell’aumentata sensibilità dell’opinione pubblica ai temi ambientali e salutistici.
Il Clinto-n: una specie a rischio estinzione
Clinto (o Crinto): con grappolo compatto, pieno e tozzo, con acini medi, buccia piuttosto grossa e nera, uva non molto profumata, poco zuccherina. Il Clinto potrebbe essere frutto di un incrocio tra Clinton e varietà europee, per migliorare le qualità vinifere (Labrusca – Riparia – Vinifera).
Clinton (o Crinton): questo risulta essere con grappolo più allungato, acini radi e abbastanza grossi e rotondi, con presenza di qualche acino verde, buccia molto grossa e scura, profumo vagamente di fragola e frutti di bosco, poco zucchero.
In entrambi i casi, il vino che se ne ricava è in genere basso di grado, dagli 8 ai 10 gradi alcolici, che sono la norma; in rari casi eccezionali esso può raggiungere anche i 12 gradi e oltre. Il Clinto è di un incredibile colore rosso scuro, tendente al viola; al palato si presenta sgarbato, con gusto deciso, prevalenza di toni aspri e retrogusto leggermente amarognolo; con profumo che può essere intenso ma poco persistente e comunque inconfondibile; con sentori di fragola, frutti di bosco e prugna spesso accompagnati da quello che viene definito aroma “selvatico”, foxy per gli anglosassoni.
Quello di una volta lasciava una traccia densa nelle bottiglie e sui bicchieri, ed anche per questo, risultava gradevole berlo nella scodella con l’interno in ceramica bianca, come si usa ancora oggi in qualche rara occasione rituale.
È molto probabile che l’usanza della scodella fosse più una conseguenza dell’economia rurale che un espediente gastronomico. Come dicono i nostri vecchi, fino a 70-80 anni fa il bicchiere di vetro, nelle case contadine, era un lusso che pochi si potevano permettere e le scodelle in terra smaltata, invece, potevano anche essere prodotte in casa utilizzando l’argilla delle campagne.
Attualmente I vini Clinto e Clinton (in particolare il taglio), sono diffusi soprattutto in Veneto, in provincia di Vicenza (Gambellara – Villaverla) e nella Marca trevigiana.
Ma se dovessimo identificare una zona “a denominazione d’origine” per il Clinto “superiore”, quella con la maggiore tradizione ed i migliori vini, questa dovrebbe essere individuata nel Quartier del Piave tra i comuni di Sernaglia della Battaglia (incluse le frazioni ed in particolare Fontigo) e di Moriago (comprendente la frazione di Mosnigo). Volendo si potrebbe estendere a Vidor, Farra di Soligo, Pieve di Soligo, Refrontolo, Follina.
Il Clinto non è solo vino, da bere o servire con le fragole, ma la grappa che se ne ricava è straordinariamente vellutata, densa, profumata, con prevalenza di fruttato di prugna e un finale di miele d’acacia in bocca. Sarà che il vino toglie alla grappa e tanto più un vino è sgarbato, tanto più la grappa che se ne ricava viene fuori armonica (ndr). È una questione di buccia spessa, di elementi aromatici, ma anche di vinaccia che tende ad essere meno sfruttata, da parte di chi vinifica.
Persecuzione o Valorizzazione?
Come per altri vini ricavati da vitigni ibridi americani ed euro americani (frutto di incroci tra vitis labrusca e vitis riparia), una volta vinificato con le tecniche tradizionali il Clinto/Clinton, da luogo ad un prodotto sospettato in passato di contenere metanolo, che come sappiamo agisce negativamente sul sistema nervoso. Si sospettava inoltre, che particolari antociani (pigmenti rossi), presenti nella buccia, potessero contribuire a sviluppare acidi cianidrici, di una certa tossicità. Sembrava peraltro, ma questo risultava l’unico dato positivo, che l’uva clinto contenesse molto potassio.
Saranno state poi vere queste supposizioni?… o non è che ci troviamo di fronte a una crociata denigratoria da parte dei garantisti dell’enologia, che portano avanti un’idea di vini omologati su standard internazionali, pieni di tannini da barriques e lontani dalle tradizioni e dalla storia, sia quella povera e rurale, che quella di tutti i diversi “stati politico-gastronomici” di questo nostro Paese, così ricco di bio/psico-diversità.
In realtà innumerevoli studi ed analisi effettuate hanno smentito ampiamente la presunta tossicità del clinto. Io stesso ne ho fatto analizzare 4 bottiglie di produttori diversi (tra gli intervistati), all’Istituto Sperimentale di Enologia di Conegliano e i risultati sono stati in tutti i 4 casi positivi e nella norma. Si trattava di “vino” sotto ogni punto di vista. Del resto il Clinto di oggi non è come quello di 80 anni fa. E’ anche una questione di tecniche enologiche.
Aneddoto
Ho trovato questa interessante citazione, presa da un saggio di storia locale del pedemontano veneto, che la dice lunga sul rapporto di amore-odio che intercorreva in passato, tra i contadini poveri e la loro unica bevanda alcolica consentita.
“Vinceremo la guerra e i contadini non moriranno più di ulcera gastrica per colpa del clinto, e non si ammaleranno più di pellagra a forza di mangiare polenta al mattino, mezzogiorno e sera. Finalmente potremo mangiare anche noi tutti i santi giorni, e bere il vino bianco, che ci è sempre stato negato perchè al contadino è riservato il clinto, quello che con il suo colore rosso carico (quasi nero) proietta ombra sul tavolo, dove si posa il bicchiere…”
Questa citazione mi ha fatto venire in mente un aneddoto che mi raccontò mio padre, nel dopoguerra Sindaco di Farra di Soligo, paese in quegli anni ad economia esclusivamente rurale, con piccolissime aziende contadine e miseria. Si produceva a Farra moltissimo Clinto, e un anno la produzione fu così abbondante, da rendere impossibile vendere tutta l’uva, che giocoforza fu trasformata direttamente in vino, che i contadini non riuscivano a vendere nemmeno a prezzi stracciati.
Così chiesero al Sindaco il permesso di esporre il tralcio di vite (la frasca) sopra la porta di casa, e di vendere il vino in mescita diretta agli avventori che volevano passare qualche ora a giocare alle carte, applicando una tariffa di consumo orario (!).
In seguito alle rimostranze degli osti, che rischiavano di perdere parte dei clienti, mio padre propose ai contendenti una salomonica decisione: i contadini potevano continuare a mescere il vino in casa, con la tariffa oraria, ma non era concesso agli ospiti di sedersi per “battere il fante”, privilegio riservato solo alle osterie.
Era così grande il disagio economico, in quegli anni, che a volte ai bambini per intingerci il pane della colazione, veniva data una scodella di clinto tagliato con l’acqua, al posto del latte, che veniva più facilmente venduto. Così, qualche bambino arrivava a scuola la mattina, con i caratteristici “baffi da clinto”, ai lati della bocca.
In conclusione
Se è vero che, nel corso del secolo scorso, la diffusione in molti paesi degli ibridi americani metteva forse a rischio le sorti delle specie autoctone -e probabilmente anche la stessa sopravvivenza di alcuni vitigni nostrani più sensibili alle diverse malattie- è altrettanto vero che ormai, con l’enorme attenzione che in tutti i paesi a vocazione vitivinicola c’è per la difesa dei cosiddetti vini “autoctoni” (con denominazione d’origine o geografica protetta) e con la crescita in generale della qualità dei vini, il rischio sia da ritenersi superato.
Credo non ci sia niente da temere rispetto alla presenza in alcune circoscritte aree del paese (o in presidi definiti) di produzioni limitate di Clinto e Clinton (e anche Fragolino, Noah e Bacò), nel rispetto delle tradizioni e dei requisiti di igiene qualità; senza per questo incorrere in ridicole sanzioni da parte dei Nuclei repressione frodi di Carabinieri o della Guardia di Finanza. Se poi la condizione dovesse essere quella di evitare per questi “vini maledetti” proibiti soprattutto (?) in Italia, di attribuire la qualifica di vino, per non creare impatto problematico su norme e regolamenti europei, consentendo quella alternativa di “bevanda a base di succo fermentato (o alcolico) di uva Clinto, Clinton, Bacò ecc”, credo che questa sarebbe comunque una soluzione migliore di quella del proibizionismo e della persecuzione preconcetta.
Dallo studio dei dati storici e dalle analisi emerge la non veridicità della teoria secondo la quale i vini derivati da ibridi conterrebbero necessariamente sostanze tossiche (come il metanolo o gli acidi cianidrici). Tra l’altro, con l’evoluzione dell’enologia, delle conoscenze, degli strumenti, sia i problemi di acidità o di tannicità in eccesso, che quelli legati ad altre caratteristiche anomale o a specifici difetti del vino, risultano facilmente superati grazie ad accorgimenti tecnici. Ciò non implica che si debbano per forza far rientrare grazie alla tecnica (e per mero rispetto dei regolamenti) le caratteristiche del Clinto all’interno degli standard più diffusi. Si tratta di un prodotto storico e come tale va trattato rispettandone le specificità. In fondo il Clinto in Italia ha più anni dell’Amarone ed anche del Brunello di Montalcino!
Anche per quanto riguarda la “produzione diretta”, che un tempo era la norma, ed ora viene vista come la peste, ormai non si pone più il problema, perché la stragrande maggioranza dei vitigni di Clinto sopravvissuti sono innestati su piede come tutti gli altri vitigni autoctoni. La stessa cosa vale per altri ibridi, con l’eccezione del Bacò, che eventualmente potrebbe restare tale, vista la esigua produzione residua.
Occorre anche tenere presente l’importanza di un vino, pardon di una bevanda… che non richiede eccessivi trattamenti e addirittura assimilabile tra i vini biologici e in qualche caso addirittura biodinamici, in virtù delle già descritte caratteristiche della vite; ciò anche alla luce della evoluzione dei mercati verso vitigni resistenti che non richiedano eccessivo ricorso ai prodotti chimici.
Tra gli argomenti a difesa, c’è da aggiungere quello relativo alla straordinaria grappa che si può ricavare dalla vinaccia di Clinto. Per consentirci di continuare a godere, anche in futuro, della migliore tra le grappe possibili, vale sicuramente la pena di dare qualche ragione in più ai coltivatori, per mantenere le proprie viti di Clinto, sapendo che possono ricavarne sia il “succo fermentato” che la preziosa vinaccia da vendere ancora umida a caro prezzo, a qualche distillatore illuminato.
Forse non tutti sanno che, grazie a deroghe regolamentari e interpretazioni delle normative, in Austria (ma anche in Germania, Francia, Svizzera, Ungheria) vengono tuttora prodotti e commercializzati da cantine ufficiali, ottimi “vini” a base di uva Clinton e di altri ibridi produttori diretti, senza incorrere in sanzioni di alcun genere. Il mercato è naturalmente locale, e le quantità prodotte sono limitate, ma pur sempre 50 o 100 volte superiori a quelle italiane…
Considerazione finale, anche alla luce del riconoscimento come patrimonio culturale Unesco, delle colline del Prosecco Superiore: il Clinto non è semplicemente un vino ma soprattutto un prodotto culturale/storico che ha influenzato nel bene e nel male e per oltre 150 anni, la vita delle persone del territorio dell’Alta Marca. Esso può a pieno titolo essere compreso tra i patrimoni culturali da preservare e proteggere, in quanto produzione tipica locale (PTL) di un territorio, in particolare quello del Quartier del Piave, risultando in questo modo un ulteriore elemento di attrazione.
Il Sistema Prosecco Superiore non deve temerne ripercussioni negative; come del resto non c’è niente di male (anzi) nel promuovere la Soppressa d’Alta Marca, la polenta bianca, lo Spiedo o la Casatella… Si tratta in tutti i casi di componenti della tradizione gastronomica locale che aggiungono valore, a quello generato dal vino, contribuendo ulteriormente allo sviluppo dell’incoming turistico verso il territorio patrimonio dell’Umanità.
Da oggi disponibile anche presso i punti cantina di Milano e Graz.
Presso i punti cantina 77vintidó di Milano e Graz, è da oggi disponibile il Superiore di Cartizze della cantina Rive del Bacio.
Prodotto nella zona del Follo (Fol) a Santo Stefano di Valdobbiadene, il Superiore di Cartizze nasce in uno dei migliori terroir all’interno del famoso comprensorio collinare.
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